The House That Jack Built – Scheda Film


Titolo: The House That Jack Built

Anno: 2018

Regia: Lars Von Trier

Paese: USA


Trama: Stati Uniti, 1970. Jack è un ingegnere psicopatico con tendenze ossessivo-compulsive. Dopo aver ammazzato una donna che gli aveva chiesto soccorso per strada, si convince di dover continuare a uccidere per raggiungere la perfezione. Ogni suo omicidio deve essere un’opera d’arte, sempre più complessa e ingegnosa. Inizia così una partita a scacchi con la polizia, lunga dodici anni, condotta dal più astuto e spietato omicida seriale.



Recensione: Iniziamo l’anno con il tanto atteso ritorno di zio Lars, con il suo film, a suo dire, più violento. Dopo lo scandalo a Cannes temevamo fosse la fine per la sua carriera, invece inaspettatamente riesce a rigirare questa situazione a suo favore, creando una pellicola che dimostra quanto abbia capito i propri errori e la sua intenzione di non imparare da essi, sconvolgendo lo spettatore medio e deliziando noi appassionati.
Do per scontato che chiunque stia leggendo questa analisi si sia già fiondato nella visione dell’opera, altrimenti vi invito caldamente a chiudere la finestra e tornare qui a visione ultimata.

Jack è un personaggio che rasenta la perfezione, reso tale dalla meravigliosa caratterizzazione del personaggio, che scopriamo omicidio dopo omicidio. Ogni tratto della sua personalità va al suo posto componendo un grande puzzle disturbato. Jack ha un disturbo ossessivo compulsivo (DOC) con disturbo di personalità psicopatica e lo veniamo a sapere in un modo molto interessante, al di fuori del filo narrativo: scene brevi in cui il protagonista guarda in camera e tiene dei cartelli in mano che ci rivelano questi tratti della sua personalità, un modo così semplice, ma che funziona incredibilmente. Dopo questa presentazione c’è la migliore rappresentazione mai portata su schermo di pensieri ossessivi compulsivi, che da una parte lo rendono super attento a non lasciare traccia del suo delitto, dall’altra lo rallenta e lo mette in pericolo.

La pellicola è divisa in capitoli denominati incidenti, mai la parola eufemismo fu più adatta. Questi incidenti sono vari omicidi, scelti in modo casuale, nella sua carriera da serial killer. Tutti hanno un unico comune denominatore: la vittima è sempre donna. Altre similitudini non ce ne sono, ogni omicidio è diverso dal precedente, ma l’ordine cronologico è evidente. Nei film di Lars, infatti, mai nulla è lasciato al caso, neanche se è il protagonista stesso a dichiararlo. Il primo omicidio è quello diventato più celebre, si tratta di una donna, interpretata da Uma Thurman, rimasta con l’auto in panne in mezzo al nulla. Qui vediamo un Jack completamente disinteressato ad ucciderla, o almeno all’inizio. Quando poi, dopo averla aiutata, lei continua insistentemente a chiedergli favori scatta in lui quella scintilla che si tramuta in vari colpi di cric sulla faccia della malcapitata. L’episodio ricorda vagamente il primo omicidio di Jeffrey Dahmer, nonostante sia un noto modus operandi quello di uccidere autostoppiste in difficoltà, anche in quel frangente si trattò più di una casualità dettata dagli eventi che un omicidio premeditato. Si tratta infatti del primo omicidio di Jack.

Gli omicidi successivi al suo “svezzamento” sono sempre premeditati invece, a partire dal secondo che dimostra come ci sia l’intenzione di uccidere, ma non ancora la capacità nel farlo. Il suo piano di fingersi poliziotto non regge, dovrà infatti improvvisare a lungo per lasciare che la donna lo faccia entrare in casa per poi strangolarla. La lunga scia, e non uso questo termine a caso, di fortunati eventi che accadono successivamente ci porta a pensare come venga aiutato un po’ troppo dall’autore e che in realtà Jack sia soltanto un mezzo per comunicarci qualcosa.
Omicidio dopo omicidio la sicurezza si fa in strada in lui, un po’ come succede nella realtà quando non veniamo puniti sapendo di aver sbagliato, fino ad arrivare a prendersi gioco della polizia, come un novello Ed Gein, e sperimentare delitti assurdi che ricordano la serie Hannibal. L’essere uno psicopatico lo rende sfacciato e noncurante, se non fosse stato aiutato dal suo DOC, che lo costringe a ripulire le scene del crimine, sarebbe stato preso molto prima, in quanto se ne frega di rimanere nell’ombra. Addirittura dice che il miglior modo di nascondersi è il non farlo, come l’insospettabile Ted Bundy.

L’arte del serial killer, sangue su tela.

Prima di arrivare al tanto discusso finale dobbiamo farci la fatidica domanda: cosa caspiterina vuole comunicarci Lars? Le ipotesi sono infinite, ma utilizzando la chiave di lettura che vuole Jack come Lars stesso, allora si potrebbe tracciare un filo logico all’interno di tutta questa Odissea. Secondo il regista per apprezzare l’arte occorre sacrificare la propria morale e il proprio punto di vista, ciò chiaramente non sempre avviene e il risultato sono pesanti critiche al suo operato. Un serial killer può essere dunque visto come un’artista e le sue vittime come opere d’arte, immortalate per sempre in una fotografia o in una cella frigorifera. Il vedere un cadavere ha semplicemente un impatto maggiore rispetto ad un’opera architettonica maestosa, come piramidi, templi o la muraglia cinese, opere che hanno necessitato un’infinità di morte e sofferenza per essere create. Lars ci porta in un’ottica completamente diversa, siamo nella testa di uno squilibrato che paragona un genocidio ad un grappolo d’uva appassito. In una persona normale questo ragionamento è tremendo, ma per Jack non fa una piega e noi stiamo semplicemente intralciando l’arte.

Il paragone poco felice di Jack

Il finale ci porta letteralmente in un inferno dantesco, ma utilizzando termini che prendono la distanza dalla simbologia cristiana, termini greci come ‘campi elisi’, per quello che sembra essere descritto come il “paradiso”, e “Katabasis”, che significa letteralmente discesa, come se volesse rendere la discesa nell’inferno un viaggio fatto più per la sua voglia di spingersi sempre oltre il suo limite, che per espiare le proprie colpe. Verge è il nostro Virgilio, controparte del cervello di Jack, che per tutto il film discuterà con lui sulle motivazioni che lo spingono a compiere tali malvagità e che lo abbandonerà soltanto quando non ci sarà più nulla da fare per salvarlo. Questa parte onirica di pellicola lascia molto dubbiosi, ci sono mille possibili interpretazioni, ma alla base c’è la ricerca dell’oltre, superare ogni volta i limiti, a costo di morire facendolo. Anche in questo rivedo molto il regista stesso, quello che pur di creare un buon prodotto manda all’aria anni di rehab e si rimette a bere, che non viene messo nell’olimpo dei grandi registi per il suo carattere fuori le righe, ma sa assolutamente di meritarselo e se lo vuole prendere da solo il posto che gli spetta.

 

In conclusione Lars ha creato il film definitivo su questo genere, prendendo spunto da innumerevoli serial killer e pellicole che considero sacre, come Funny Games di Haneke. Lars sfoga tutta la sua rabbia verso una società che limita la creatività, creando una discussione tra arte e morale che rimarrà per sempre attuale, costruendo una casa di cadaveri da cui gode di una vista perfetta per gustarsi le tanto prevedibili critiche e sentirsi, soltanto per un momento, onnipotente come Jack.

Pubblicato da Jeff

Creatore del sito, amante del genere horror da numerosi anni, considero il genere molto più esteso rispetto a fantasmi e budella, come potrete notare nei film che posto. Guardo di tutto ma amo in particolar modo il cinema indipendente ed underground. Ho un feticismo estremo per il trash, soprattutto per quello giapponese.

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